Masseria Guarlamanna
La Murgia pugliese: dura come la pietra
Ero adolescente quando sentii parlare, per la prima volta, della Murgia. Mio padre, funzionario dell’Ente di Sviluppo Agricolo (emanazione dell’ormai mitica Cassa del Mezzogiorno), diceva che la Murgia non era che una “terra di pietre e sassi”. Se ne intendeva, lui, visto che lavorava alla realizzazione di quel progetto di ripopolazione della campagna ch’era il fulcro della Riforma Fondiaria del dopoguerra. Mi colse un vago fastidio nell’accento canzonatorio del suo giudizio. Non avevo, all’epoca, argomenti per contestare, ma qualcosa si piazzò al centro del cervello, chiuso in un cassetto che molti anni dopo, non lo potevo immaginare, si sarebbe schiuso. Così fu che, riaperto il capitolo dell’esplorazione e complice l’infaticabile opera di mappatura (quasi una frenesia) che ci prese all’atto di costituire il nostro Collettivo, ci ritrovammo tra le “pietre ed i sassi” a far di conto con la storia dei nostri avi. Sfuggiva, a mio padre, che la murgia era la culla della nostra cultura? Non credo. Piuttosto una reticenza ad accettare qualcosa che, al momento e per lui, era soffocato nella fatica del lavoro. Per noi, invece, fu la scoperta di un mondo del quale avevamo ripetutamente sentito parlare ma che non avevamo ancora sperimentato con occhio fotografico e con spirito di ricercatori di bellezza.
Guarlamanna è uno di quei luoghi dove la fatica dell’uomo è rimasta scolpita nelle pietre, quelle saggiamente rapite al terreno per fare di quello pascolo e foraggio e di quelle muri e ricoveri. L’ingresso principale del fabbricato, unico a due piani, è infatti costituito da grossi blocchi di pietra. Pietre che servivano anche per la costruzione dei muretti e dei ricoveri delle greggi, sia quelli privi di copertura che le così dette spenne, dotate di tetti in tegole sorretti da travature, ormai andati perduti. Ciò che doveva essere la negazione della vita, si rivelò ai nostri obiettivi come la vera ricchezza della Murgia. La sapienza degli uomini aveva ritorto a favore l’asprezza di un ambiente ostile anche se al prezzo di una fatica che non risparmiava neanche le giovani braccia di pastorelli di meno di dieci anni, i pastoricchi, dediti alla sorveglianza notturna degli armenti la cui triste infanzia fu sapientemente raccontata in quel “Morire di Murgia” di Bianca Tragni, divenuto testo di culto per ogni appassionato della cultura locale. Ma c’era di più. La masseria viene eretta sul costone di un declivio, una lama di terreno che, creando un canale naturale, favoriva la raccolta delle acque piovane che scivolano sul terreno argilloso. L’ingegno dell’uomo aveva controvertito l’atavica penuria d’acqua del territorio facendo propria l’esperienza secolare di quanti, già in epoca preistorica, avevano sconfitto la siccità come nei primi insediamenti della non lontana Matera. La grandezza della masseria lascia agevolmente comprendere che attorno alle sue mura fervesse l’attività di molti tra proprietari e lavoranti e che il ciclo produttivo fosse completamente svolto al suo interno. Oltre agli alloggiamenti delle pecore, infatti, nel “casone” veniva preparato il formaggio e nel “casolare”, solitamente più fresco, veniva conservato per la vendita. E ancora il miracolo delle pietre si rivela nella costruzione delle “corti”. Un articolato sistema di ambienti delimitati per il governo del bestiame e l’agevole controllo anche in relazione al sesso, l’età, lo stato di gravidanza, le malattie e via così. Seguendo scrupolosamente l’orografia del terreno per una perfetta adattabilità e stabilità dei perimetrali, i muri raggiungono anche i tre metri di altezza e lo spessore di oltre il metro e mezzo, il che ne consentiva la percorribilità e l’alloggiamento delle “scannalupi”, pietre a forma di cuneo utili per tener lontani i famelici predatori.
“Dura come la pietra” non sempre è sinonimo di epiteto negativo e mio padre, se fosse ancora qui, sono certo che riguarderebbe il suo lapidario giudizio su questo vasto e complesso territorio. Col piglio scientifico che non ci è proprio, oggi la chiamiamo biodiversità, ma non è altro che l’espressione di una cultura millenaria tramandata che periodicamente trova interrotto il suo cammino e, fortunatamente, ogni tanto recupera terreno nei racconti, nelle foto, nelle coscienze di quanti si ostinano a credere in un futuro migliore.
Per Konstantin Levin la campagna era un luogo di vita, cioè di gioia, di sofferenza e di lavoro; per Sergej Ivanovic la campagna era, da una parte, il riposo dal lavoro, dall’altra un utile controveleno alla corruzione, ch’egli prendeva con piacere, consapevole della sua efficacia. Per Konstantin Levin la campagna era tanto bella perché rappresentava il campo di azione per un lavoro indubbiamente utile; per Sergej Ivanovic la campagna era bella perché vi si poteva e vi si doveva restare oziosi.
– Lev Tolstoj
Autori: Valeria – Antonio – Mimmo